Joe Dante, The Hole (2009)

giugno 12, 2010 at 11:38 am (Cinema, recensioni) (, , , , , , , , , )

Un nucleo familiare composto da una madre comprensiva, un adolescente scazzato e un bambino amorevole si trasferisce in una minuscola cittadina della provincia americana, e non sembra neanche la prima volta, per motivi che verranno fuori nello sviluppo abile della storia.

In uno dei giri di esplorazione della nuova casa, i due fratelli Dane e Lucas scoprono la classica botola con gli eloquenti lucchetti, che altrettanto canonicamente verranno fatti saltare, per rivelare un buco nero senza fondo. E nel frattempo a loro si è aggiunta una delle vicine più carine e più cool delle minuscole cittadine della provincia americana, che gioca con Lucas e fa che Dane si spettini per darsi un tono. (Ed è anche acculturata! Alla sera legge Dante! Ah ah! capito la doppia trovata?)

Dante torna a girare una storia con adolescenti e preadolescenti (anche diegeticamente, gli adulti “responsabili” vengono lasciati fuori dai ragazzi), per un pubblico principalmente della stessa fascia d’età, e lo fa con mano esperta e mestiere sicuro, specie nella direzione degli attori, rigiocando i canoni e i personaggi del genere horror.
Ma c’è poco di più in questo film, per il quale anche il 3D, che avrebbe in teoria lo scopo di immergere nella storia, appare invero piuttosto inutile (con una scena di effettaccio old-fashioned, con un ago che cade negli occhi dello spettatore).

[recensione originale qua]

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Future Film Festival 2010: il vincitore

gennaio 31, 2010 at 2:26 PM (Cinema, Future Film Festival 2010, notizie) (, , , )


Stéphane Aubier, Vincent Patar, Panique au village.

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Monte Hellman, Silent Night, Deadly Night III: Better Watch Out! (1989)

gennaio 4, 2010 at 1:57 PM (Cinema, recensioni, retrospettive) (, , , , , , , , , , , , )

Fino dalla comparsa del titolo, con quel “Better Watch Out” che si evidenzia prima di “Silent Night, Deadly Night”, Hellman sembra volere affermare la sua paternità, distinguendo questo terzo capitolo da una saga horror con il capostipite discretamente pessimo e inutile e il sequel totalmente vergognoso.
Del primo viene ovviamente mantenuta l’idea di base, ed è richiamato qualche personaggio; del secondo, Hellman pare riutilizzare la trovata dei poteri/collegamenti mentali. Ma, a parte queste caratteristiche, il film segue logiche tutte sue, secondo marche autoriali che questa volta tuttavia fanno fatica a emergere, e quando ci riescono non funzionano.

Si inizia con una atmosfera che incrocia un bianco bergmaniano con situazioni oniriche alla Nightmare, con la ragazza protagonista (cieca, ma con speciali doti psichiche, tra cui urla e recitazione avvilenti) che viene messa in comunicazione con la mente del maniaco, chirurgicamente ricostruita dopo essere stata “danneggiata” da un colpo di pistola grazie ai macchinari di uno scienziato sperimentatore un po’ psicologo e un po’ filosofo. Ma quando l’angoscia, espressa con la musica e con inquadrature in primo piano della ragazza, comincia a farsi sentire, viene fatta sfumare, vanificata. Si costruisce la scena secondo i meccanismi dello spaventerello, ma poi ecco un campo lungo al posto di un primo piano.
Allo stesso modo, i riflessi nelle reazioni degli attori risultano sballati; alcune scene orrorifiche potenzialmente succose avvengono fuori campo; i tempi dilatati (marca stilistica del regista) sembrano fini a se stessi e portano a lentezze esasperanti che annichiliscono il genere senza offrire una qualsiasi contropartita.
OK, si distrugge l’horror, ma in nome di che cosa? Dell’umorismo del maniaco che fa l’autostop in camice d’ospedale e con il cervello scoperto dentro una calotta di vetro? O di quando è a tavola con la nonna della protagonista, in una scena scopertamente frankensteiniana, con un cappello di lana sopra la calotta?
Insomma, che senso ha svuotare il genere, o questo genere? O l’operazione è davvero troppo intellettuale e sottile?

Pare ovvio che a interessare Hellman sia altro. Ma cosa? Alla sua tematica kafkiana della colpa, inserita peraltro superficialmente, viene dedicato uno spiegone verbale del tutto anti-cinematografico. Il resto, se c’è, non emerge, o è giocato male. (A parte una sorta di rivendicazione autoriale di una collaborazione alla regia non accreditata per La vergine di cera di Roger Corman, film di cui vengono mostrati vari spezzoni su televisori accesi: Hellman aveva infatti girato intere scene aggiunte in un secondo momento, ma era stato accreditato unicamente come “location director”.)

[Codesto pezzo da qua trae origine.]

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Monte Hellman, Iguana (1988)

gennaio 1, 2010 at 4:20 PM (Cinema, recensioni, retrospettive) (, , , , , , , , , , , , , , , )

Il marinaio Oberlus l’Iguana è una figura profondamente letteraria. La sua storia è tratta dal romanzo di Alberto Vázquez-Figueroa, cha a sua volta aveva preso spunto da una novella di Herman Melville. Senza considerare i rimandi del suo personaggio, che appare un po’ Calibano e Prospero insieme, un po’ Fantasma dell’Opera, un po’ Bestia; e aggiungendo il suo vagare con il Don Chisciotte sotto il braccio, poco dopo avere imparato a leggere, intento a riflettere sulla figura di Dulcinea.
Reietto, si elegge sovrano di un’isola, si circonda di un gruppo di schiavi e rapisce Carmen, che era sbarcata con il suo amante.
È mostro ed è filosofo: mostro per le crudeltà che compie, mentre il pensiero è quello di Hellman, in un’opera a tesi.

La vittima è simile al suo carnefice, i loro ruoli risultano intercambiabili, come mostrano gli stacchi improvvisi (e a volte eccessivamente didascalici, e con raccordi tagliati in maniera piuttosto brutale), con salti temporali e annessi cambi di luogo, in una scelta di montaggio che Hellman utilizza per la prima volta; benché non si capisca, con una ambiguità probabilmente voluta, se si tratti di flashback o di flash-forward.
Similmente, i comportamenti dei due maggiori rappresentanti di queste tipologie di caratteri sembrano a volte come frenati: non solo Oberlus ha spesso una espressione pensosa e titubante, ma sia lui sia Carmen non appaiono certi del loro ruolo, probabilmente perché questo non è frutto di una libera scelta, bensì necessario.

L’autodeterminazione è allora una illusione, secondo peraltro un assunto caro al regista. Resta quindi poco credibile anche l’impossibilità dei servi di ordire una rivolta.
In questo film, tuttavia, come era già avvenuto nel precedente Amore, piombo e furore, Hellman sembra concentrarsi sulle conseguenze a livello umano del determinismo del Fato (seppure restando nell’ambito di una relativa astrazione teorica), tratteggiando persone incapaci, prive sostanzialmente di volontà e assoggettate a una condizione naturalmente belluina di violenza.

Hellman si avvale in sostanza della letteratura come di uno schermo disvelatore, per illustrare una tesi e per tracciare una portata del suo determinismo sul piano dei caratteri e dei rapporti umani.
L’efficacia di tale rappresentazione risente purtroppo di una grande povertà di mezzi. Benché Hellman tenti di ovviarvi valendosi della sua formazione alla factory di Roger Corman, e nonostante l’ottimo utilizzo delle location (e una scena finale splendida come poche), il taglio quasi da fiction televisiva di alcune situazioni (specie quelle con molte persone, sulla nave) indebolisce la forza e l’intensità della narrazione.

[Versione originale, qua]

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Monte Hellman, Amore, piombo e furore (1978)

dicembre 31, 2009 at 2:25 PM (Cinema, recensioni, retrospettive) (, , , , , , , , , , , , )

Il killer Fabio Testi* viene salvato dalla forca da una grossa compagnia ferroviaria, che ha bisogno del suo servizio per sbarazzarsi del contadino (a sua volta ex pistolero) Warren Oates, che non vuole cedere il suo terreno.
Testi va ad assolvere il compito, ma Oates prende a piacergli e rinuncia. Tuttavia si invaghisce, corrisposto, di sua moglie Jenny Agutter, e fuggono insieme. Cominciano gli inseguimenti.

Dopo dodici anni Hellman torna all’ambientazione western e dirige un film apparentemente meno rivoluzionario e alternativo dei due precedenti, ma che in realtà arriva a esserlo in un modo differente.
Gli estremi risultano smussati, benché dietro una narrazione più canonica, dal montaggio più lineare e con inseguimenti meno beckettiani, ci sia il solito Hellman della commistione tra B-movie e intellettualità, dei tempi dilatati, della quotidianità anti-mitologica, della sovranità del Fato, del dubbio valore della parola.

Il regista sembra avere spostato il suo interesse concettuale ed espressivo.
Il campo lungo sulla moglie di Oates che fa il bagno al fiume è qualcosa di più di un corrispettivo visuale della dilatazione temporale, con la sua carica di umana sensualità. Così come, all’apparente autodeterminazione personale nei confronti del Fato (nel duello finale tra Testi e Oates), corrisponde una sottomissione più generale sul piano della Storia.
E infine, la presenza di Sam Peckinpah nei panni di un compratore di storie innesca tutta una serie di rimandi di senso a più livelli, considerando, testualmente, il rifiuto e il disinteresse che gli oppone Testi a essere tramutato in mito, ed extra-testualmente la filmografia di Peckinpah con i suoi fondamentali anti-western. La parola, da assurda, si è fatta inutile.

Al tramonto del western classico, Hellman tira le somme di questo crepuscolo, e al contempo lo utilizza per una espressione diversamente equilibrata delle sue tematiche personali.

[Qua la classica versione originale del pezzo.]

* E va bene che l'inespressività di Testi è funzionale alla poetica hellmaniana, ma il suo inglese nella versione originale e alcune tra le sue espressioni (su tutte, quella davanti alla prostituta), risultano davvero penosi.

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Monte Hellman, Cockfighter (1974)

dicembre 24, 2009 at 11:11 PM (Cinema, recensioni, retrospettive) (, , , )

Il film si svolge nel mondo delle battaglie dei galli, tra allevatori, allenatori, arene, scommettitori. In molti passaggi è del tutto assimilabile a un documentario.
Il personaggio di Oates, sbruffone e beone, fa il voto di non profferire più una parola fino a quando non avrà vinto il torneo maggiormente ambito, per riconquistare il rispetto di sé e, riscattato, l’amore della sua ragazza di un tempo.

Gli allevatori trattano con grande premura i propri galli, li curano e quasi li amano. Ma poi li fanno combattere in gare in cui possono trovare la morte (e il film ha incontrato parecchi problemi con la censura, a causa delle proteste dei movimenti animalisti; a volte in effetti risulta moralmente disturbante, specie il secondo combattimento con tanto di ralenti, benché cinematograficamente notevole con il suo tappeto musicale). Non sembra che questi allevatori agiscano per denaro, che difatti è poco e appare ininfluente: ogni volta in cui si mostrano questioni di soldi, il tutto potrebbe essere ricondotto a una burla: quando Oates e il socio prendono con la forza il portafogli al ragazzo che non voleva pagare la scommessa persa, questo li guarda sorridendo mentre loro sfilano le banconote; dopo la rapina nella stanza d’albergo, i rapinati se la ridono grassamente; il ragazzo che deve pagare la multa, prima protesta ma poi lo fa allegramente, di nuovo con un sorriso.
Pare, piuttosto, che i galli vengano usati come strumenti per fini di realizzazione personale, sbarazzandosene senza problemi alla bisogna. Ed è questo che Oates, indubitabilmente ossessionato, vuole mostrare alla donna che ama, e che invece è schifata da tale genere di mondo, non vedendovi un futuro di realizzazione per la loro coppia.

Questo meccanismo forse ha affascinato Hellman, per il grado di dipendenza che innesca nell’essere umano, con il suo potenziale di paradossalità. Ma in effetti, esso non appare così esistenzialmente assurdo, e in (/da) questo film l’interesse principale del regista sembra subire uno slittamento.
Allo stesso modo, il percorso per il torneo finale, l’occasione di riscatto, è sì costellato di deviazioni e divagazioni episodiche, con raccordi di montaggio peraltro approssimativi, come la gara di Strada a doppia corsia, ma qua, al contrario che nell’altro film, alla fine si arriva.

Un soggetto e una sceneggiatura troppo forti sembrano dunque impedire a Hellman l’espressione compiuta delle proprie marche autoriali, nonostante i tentativi nel montaggio. Il finale posticcio ne sarebbe la dimostrazione più eloquente.
La metafora sulla vita e i combattimenti dei galli, e la forza della sua portata, non sembrano appartenere del tutto a Hellman, così come il mutismo che si autoimpone Oates (bravissimo e fastidioso allo stesso tempo) non rispetta quel senso di indefinitezza e di inessenzialità cui il regista ci aveva abituato.

[Qualche particolare in più, qualche dettaglio diverso: qua]

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Monte Hellman, Strada a doppia corsia (1971)

dicembre 23, 2009 at 4:22 PM (Cinema, recensioni, retrospettive) (, , , , , , )

Non vanno da nessuna parte, i corridori di Strada a doppia corsia. La direzione è incerta e il senso si confonde: entrambi perdono di importanza, svaniscono.
La loro mancanza si manifesta su tutti i livelli: delle piccole gare clandestine cui partecipano Taylor (il Pilota) e Wilson (il Meccanico) vengono mostrati la preparazione e l’inizio, ma mai la fine e solo brevissimi passaggi dello svolgimento; della gara più grande, su cui gli stessi hanno scommesso con Oates (GTO), sembrano dimenticarsi, e deviano, cincischiano; la vita stessa di GTO, o meglio il racconto che lui ne fa, cambia di continuo.
Quasi non stupisce, in questo incurante reiterarsi del non-senso, che la fine si possa porre solo da fuori, con un artificio extra-testuale (benché la trovata sia ugualmente acuta e d’impatto).

Allo stesso modo, spesso si corre al buio e le inquadrature insistono per lo più sugli interni delle auto; viene poi concesso ampio spazio ai bar, alle stazioni di benzina e alle officine, dove ci si perde in lungaggini disperanti.
Tutto, in sostanza, concorre a trasmettere un senso di anti-spettacolarità, con il solito hellmaniano Fato un po’ paradossale e un po’ noioso, la necessarietà degli eventi (il Pilota e il Meccanico si ritrovano la ancora sconosciuta Ragazza in macchina e non fanno una piega), la loro assurdità che trova maggiore risalto per contrasto con l’estremo realismo dei particolari e il taglio quasi documentario di alcuni passaggi, come quelli in cui vengono mostrate le automobili o se ne parla con ricchezza di dettagli.

Più che nei precedenti film di Hellman, vengono inoltre palesati il dramma e la solitudine umani, nonché un bisogno reciproco a tratti estremo: nella perenne concentrazione del Pilota, con la sua incapacità di comunicazione (parla in maniera opportuna solo di automobili, e annoia la Ragazza con discorsi fuori proposito) e con l’affetto non corrisposto dalla Ragazza; nella vuota logorrea di GTO, a coprire un probabile abisso di disperazione determinato da un abbandono; nella instancabile irrequietezza della Ragazza.
(Proprio la Ragazza sembra l’unico personaggio a tentare di ribellarsi, con il suo continuo cercare soddisfazione, passando di auto in auto, flirtando esplicitamente o implicitamente con ciascuno. Anche lei, come Nicholson in Le colline blu, evade dal circolo. Ma qua il suo gesto assume molta meno importanza, sia per il fatto che non corrisponde al finale della storia, sia per l’assoluta secondarietà del suo ruolo nelle vicende.

Così come aveva operato con il western, qua Hellman corrode e svuota la più recente anti-mitologia beatnik della strada; laddove quest’ultima aveva prodotto cambiamenti speculari di segno rispetto alla mitologia classica americana, mantenendone tuttavia il valore assoluto di fondo, Hellman propone un vero e proprio annullamento, dell’una come dell’altra.

[Come al solito, qua c’è l’originale.]

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Monte Hellman, La sparatoria (1966)

dicembre 21, 2009 at 11:34 am (Cinema, recensioni, retrospettive) (, , , , , )

Un lungo inseguimento, in un percorso che sembra lineare eppure è racchiuso in un circolo.
Il personaggio interpretato da Oates è inseguito, ma in realtà si vuole fare inseguire; sempre Oates, che poi accompagna Perkins (la donna) in un inseguimento, viene tuttavia ancora inseguito; e ciascuno risponde a una volontà superiore, al solito Fato indiscutibile. In un film che risulta il più beckettiano di Hellman, quello in cui le tracce dell’assurdo sono più evidenti; forse perché lo spettatore, a propria volta, segua il regista.

Anche qua, come in Le colline blu (di cui è il film “gemello”, secondo la fortunata interpretazione di Paolo Vecchi), Hellman piega inoltre al suo discorso personale la struttura, gli stilemi e i modi del western, che risultano erosi e svuotati più per conseguenza del suo beckettismo che per scelta programmatica.
I quesiti e le domande che Oates rivolge alla donna e che, pure non trovando risposta, non cambiano il fluire degli eventi; la dabbenaggine eccessiva dell’amico di Oates; l’essenza stereotipa del killer che insegue Oates, la donna e l’amico… Sono tutti elementi che, insieme a molti altri, corrodono il western dall’interno, nella sua mitologia, benché non vogliano fare a meno delle sue caratteristiche e della sua qualità di genere.

E allora, superato il primo impatto di smarrimento, tra inquadrature ravvicinate, montaggio volutamente confuso di particolari, apparente grossolanità di narrazione, il film lascia trovare il suo verso, in un crescendo che, sebbene fuorviato dai tempi dilatati, trova la sua maestosa conclusione nel ralenti (in realtà un multiple frame printing) finale.

[Comparso originariamente qua, con diverse aggiunte]

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Monte Hellman, Le colline blu (1966)

novembre 24, 2009 at 12:09 PM (Cinema, recensioni, retrospettive) (, , )

Ogni personaggio tende a perdere il suo ruolo canonico e la sua identità, in questo originale esempio di anti-western.
I banditi sono più gentili dei fattori, lo sceriffo e i vigilantes appaiono spietati, i venturi mandriani, dal passato peraltro non chiarissimo, cedono agli eventi e diventano a loro volta un po’ banditi e un po’ assassini.
Tutti, comunque, risultano immersi in un paesaggio allo stesso tempo mitico e desolato, che è anche una condizione esistenziale dell’anima, che vive la sua unicità nel tempo presente ma senza mai essere padrona di sé, in balia di un Fato disinteressato.

Questo scivolare verso l’indefinito e lo svuotamento avviene attraverso passaggi lenti, entro i quali lo sguardo è rivolto ai gesti quotidiani, che siano sbadigli o situazioni domestiche. Un’attenzione minutamente realistica che fa risaltare per contrasto l’assurdità di fondo degli eventi, che accadono perché non possono non accadere e rendono per lo più inutili le parole che li motivino o li raccontino.
Hellman non ribalta codici e convenzioni di genere, semplicemente li slega dalla canonicità e se ne serve a piacimento per un discorso personale. Il quale, tuttavia, comporta esattamente la loro consumazione e arriva quasi a coincidere con essa.

Resta un barlume di speranza, forse, se si oltrepassano le colline blu, se si evade dal turbine che scombina e confonde i percorsi.
Magari perché, facendo riferimento a un codice etico, i discorsi del mandriano e quelli della figlia del fattore sono simili solo in apparenza. Entrambi denotano indifferenza verso l’altro: a entrambi la situazione dell’altro non riguarda. Ma mentre da una parte si parla della salvezza della vita, dall’altra c’è solo una conservazione dello status sociale.

[Qua, alcuni dettagli in più]

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Monte Hellman, Flight to Fury (1964)

novembre 19, 2009 at 2:45 PM (Cinema, recensioni, retrospettive) (, , , , , )

A partire da un misterioso scambio di oggetti tra due uomini nei titoli di testa, proseguendo con singolari incontri e dialoghi in un casinò, fino a un omicidio (e questa è solo l’apertura), la strutturazione della trama denota quella stranezza che si scoprirà cara a Monte Hellman.

La storia prosegue con un viaggio in aereo dai tempi narrativi dilatati (in cui probabilmente le necessità produttive di minutaggio totale si conciliano benissimo con la precisa scelta stilistica dell’atmosfera di assurdità beckettiana). Qua si intrecciano peculiari rapporti interpersonali, a volte arricchiti di dialoghi venati di assurdo, come la domanda: “Che cosa pensi della morte?”, piazzata là dal niente.
Poi l’aereo precipita nella foresta, la trama assume i connotati dell’avventura con annessi chiarimenti (benché permanga una certa non canonicità di costruzione), trova risalto la tematica principale dell’avidità estrema, della falsità, dell’ipocrisia.

Similmente a quanto aveva realizzato in Beast from Haunted Cave con l’inserimento di suoi tratti caratteristici in un B-movie horror, qua Hellman si avvale del genere avventuroso à la Huston per aggiungerne altri, sfumare, rimodulare.
Ne risulta un’opera più personale, in cui, sebbene ancora discontinua e timida, la sua impronta si avverte con maggiore decisione.
Soprattutto, l’inseguimento finale, con tanto di Jack Nicholson nel suo primo personaggio beffardo, prelude alle opere migliori; vi sono già la freddezza e la desolazione che segnano il paesaggio, che qua risaltano in maniera particolare per il contrasto con la frescura del setting tropicale.
Tuttavia, manca una coerenza di fondo, concettuale e di modalità narrativa, che sappia amalgamare così questo come gli altri elementi hellmaniani, che sembrano restare un po’ raffazzonati.

[Qua, la consueta versione originale del pezzo]

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